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Un viaggio lungo dieci anni. Centosedici volte Marek. Su la cresta, capitano.

Un paio di mesi fa stavo riassettando nella mia stanzetta. “Riassettare” è un parolone. In camera mia vige il caos dal primo giorno in cui ci ho messo piede. Sono un accumulatore seriale di qualsiasi cosa. Cerco di mettere da parte ogni oggetto, ogni cosa che mi ricordi un momento, un’emozione: faccio fatica a disfarmi delle cose. Eppure, qualche volta, questa mia insana abitudine mi restituisce qualcosa, talvolta regalandomi un sorriso, altre volte una vera e propria gioia. Come quel giorno di due mesi fa, quando ho deciso che dovevo “riordinare” la camera o almeno tentare di. In un mobiletto portaoggetti –o sarebbe meglio dire accumula-cianfrusaglie-, in fondo a tutto, ho scovato un pezzo di giornale; di colore rosa, ovviamente. Si trattava di una delle prime interviste di Marek Hamsik ad opera de “La Gazzetta dello Sport” datata 27 novembre 2007. In quell’intervista rilasciata a Mimmo Malfitano, un ventenne slovacco di belle speranze dichiarava di “sognare la Champions e di volerla giocare con il Napoli”. Ero incredulo. Nel corso del suo intervento, Marek asseriva di voler rimanere a lungo in maglia azzurra e di voler scrivere la storia del club. Quando lessi quell’articolo, non potei fare a meno di emozionarmi. Avevo gli occhi lucidi, i brividi. Rileggere quelle parole a distanza di dieci anni faceva effetto. 

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Ieri ho pensato a quel ritaglio di giornale. Volevo essere allo stadio, ma alcuni fattori esterni me l’hanno impedito. Ho sempre pensato che al suo record sarei stato lì ed invece non ho potuto. Pazienza. Se non altro l’ho vissuto a casa, nel mio posto, con la solita compagnia accompagna-Napoli (è cacofonico ma rende l’idea). Il goal numero 116. Quanto l’abbiamo aspettato. Finalmente è arrivato. Il pallone scaraventato in rete con violenza, quasi a spezzare il maledetto sortilegio caduto sul capitano in cerca del record. In realtà il mito era stato già sfatato all’Olimpico di Torino la settimana scorsa, con il pallone nel sette, di piatto. Mi sa che l’avevo già visto ‘sto film: stesso calcio e stesso stadio del 2-3 contro i non colorati di qualche anno fa; la sera della “Presa di Torino” come scriveva De Giovanni.

Quando Marek ha battuto Viviano sono saltato dal divano. Incurante di ciò che stessi facendo, mi sono inginocchiato davanti alla TV per qualche secondo e, mentre lui indicava il suo nome ed il suo numero spalle alla curva, non ho potuto far altro che tornare indietro nel tempo. Un film lungo dieci anni.

Nella mia testa, ho ripercorso i momenti più importanti. Dalla presentazione con Lavezzi in quell’estate di dieci anni fa. Stavo per cominciare il mio ultimo anno di liceo e, finalmente, il Napoli era in serie A. Quella volta che lo incontrai sul lungomare; settembre 2010, tornavamo da un viaggio a Zante, e le ragazze pugliesi che avevamo conosciuto in Grecia ci vennero a trovare. Marek era seduto nel ristorante “Regina Margherita”, di fronte Castel dell’Ovo. In quel periodo le voci di mercato impazzavano e, strappandogli una foto (all’epoca non sapevamo nemmeno cosa fosse un selfie) gli dissi “non te ne andare, eh”. “No, resto qui, tranquillo…”. Diceva la verità.

Siamo cresciuti insieme. Quante ne abbiamo passate. I suoi goal visti allo stadio, dalla doppietta alla Lazio nel gennaio 2008 (pareggio per 2-2 allo scadere ndr), fino alle reti alla Juventus nella doppia sfida dello scorso anno, passando per quell’esultanza –sempre contro la Lazio, altro pari, 1-1 novembre scorso ndr- in cui venne sotto di noi, in tribuna speciale, quasi ad abbracciarci, ed io scesi –istintivamente, come un bambino- le scale per andargli incontro. E poi le sue perle viste in TV. La rete alla Vecchia Signora nella Finale di Coppa Italia 2012, lo storico uno-due nel 2-3 già citato dell’Halloween del 2009, le reti al Palermo sempre nelle giornate iniziali della Serie A, la mazzata contro l’Udinese quando cademmo sotto i colpi di Di Natale, fino ad arrivare al mio preferito della serie: la storica cavalcata contro il Milan in quell’indimenticabile 3-1 nel maggio 2008, l’ultima al San Paolo del Pampa Sosa. Un coast to coast magnifico. Lì capimmo di avere un diamante tra le mani.

Dal primo in campionato, dalla Sampdoria (Settembre 2007, spalla del Pocho –qua ci vorrebbe la doppia parentesi con scritto “Ah, il Pocho…”- scambio con Zalayeta, finta e goal…) alla Sampdoria, un viaggio lungo dieci anni.

Se qualcuno doveva riuscirci, se qualcuno doveva superare il Mito in termini di goal segnati con la maglia azzurra, poteva essere solo lui. Un uomo che ha abbracciato in tutto e per tutto la nostra causa. Uno che ha scelto di rimanere qui, che ha rifiutato offerte di mercato, che ha detto di no a Raiola, che ha sposato il nostro modo di respirare, di vivere, di essere. E l’ha fatto da professionista esemplare. Mai una parola fuori posto, un atteggiamento sopra le righe. Oltre le critiche, oltre le sostituzioni ripetute, oltre tutto.

E adesso giù la maschera. Mi rivolgo a te in prima persona, caro Marek. Spero che tu possa vincere qualcosa d’importante (e chiamiamolo “qualcosa d’importante”…) perché la tua scelta DEVE essere ripagata. Perché, come Totti, meriti di coronare il tuo essere bandiera con un -anzi, IL- fiore all’occhiello. Quel “qualcosa d’importante” lo vogliamo tutti. Tu, io, noi…una città intera.

E se qualcuno deve riuscirci, e se qualcuno deve vincere quel trofeo come ha fatto il Mito, devi essere tu. Lo hai superato nei goal. Mi auguro che tu possa raggiungerlo nei trofei. La Storia di questa maglia l’hai già scritta. Ora manca solo la ciliegina sulla torta.

Per altri 116. Per altri dieci anni. Sempre al tuo fianco. Grazie di tutto.

Su la cresta, Capitano.

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