Il treno parte tra tre ore. Da casa mia a Piazza Garibaldi ci vuole un quarto d’ora. Senza traffico, si intende. Il tempo per farmi la barba dal barbiere c’è. Senza traffico di clienti, si intende.
Entro. C’è solo una persona prima di me a cui Pino sta tagliando i capelli. Bene, farò subito. Che poi, capirai, ho già tutto pronto, potrei anche perdere un’ora. Ma perché dovrei? Meglio così. Saluto Pino e il suo aiutante. Sto per accomodarmi nell’area relax, quando sento “Oh, Dodo!”. È ovviamente il cliente. È l’unico che non ho salutato. Non l’avevo riconosciuto. È Salvatore. Non lo vedo da una vita. “Uè Toto, come stai? Tutto appost’?”. Cominciamo a parlare. Mi rendo conto che in realtà non lo vedo dall’estate scorsa, da quando ci eravamo incrociati alla “Festa delle Lucerne”.
È bello tornare a parlare con lui, con calma, dopo tanto tempo. Alla festa ci vedemmo di sfuggita, in mezzo al casino, circondati da altra gente. Non riuscimmo a scambiare più di mezza parola. Mi chiede come va e cosa sto facendo. Ricambio con la stessa domanda. Mi dice che si divide come al solito tra le ripetizioni di latino e la musica, mentre aspetta di poter fare il concorso per l’insegnamento. È per questo che siamo sempre andati d’accordo. Lui è laureato in lettere ed è un grande appassionato di musica; suona benissimo sia il pianoforte, che la tastiera, oltre alla diamonica come faceva a scuola. Insomma qualsiasi cosa che abbia dei tasti. E pensare che un tempo spingevamo solo i tasti dei citofoni e scappavamo. Ci siamo rivisti spesso l’uno nell’altro, ingabbiati in percorsi di studio indirizzati -non si sa quanto inconsciamente- dalle famiglie, ma con velleità artistiche in altro; lui nella musica ed io nella scrittura.
Dopo un po’ che discutiamo, mi rendo conto che il mio entusiasmo va scemando. La conversazione, infatti, prende una piega che non mi piace. Non per lui, sia chiaro, ma per come si evolve. Il dialogo si trasforma velocemente in un interrogatorio. “E Gennaro come sta? Davide? So che si è trasferito a Parma. E Giulio? Mi hanno detto che sta insegnando a Padova, ma è vero? Come ha fatto? Come si sta trovando?”. Passare dai nostri progetti a quelli degli altri mette un po’ di tristezza. Non per ciò che fanno gli altri, ma per l’agitazione con cui me lo chiede. Un’incessante sequenza di domande che cerca di assecondare la sua sete di curiosità. Quasi come se volesse recuperare anni di distacco in pochi attimi. È stato lì che me ne sono accorto. E forse, dopo un po’, anche lui, visto che ha rallentato il ritmo. So che dentro di sé si poneva i miei stessi quesiti. Quanto tempo è passato? Come abbiamo fatto a perderci di vista? Come siamo arrivati dal vederci quasi tutti giorni al “lo sai, a Maggio mi sposo!”. Sì, perché mi ha detto anche questo.
Continuiamo a parlare. Finalmente l’incalzante serie di domande sugli altrui destini naufraga, insieme a quella sensazione di disagio nostalgico che aveva creato. Adesso siamo più rilassati. Ridiamo e scherziamo. Salvatore si trattiene anche quando Pino inizia a rasarmi la barba. Ci ricordiamo di qualche nostra vecchia battuta, quelle stronzate che si dicono tra amici, di quelle talmente esilaranti che resistono al tempo e ai traslochi dei conoscenti. Poi mi chiede se sto ancora giocando a pallone. “Il martedì ho una partita fissa sul campo grande”. “Uah, bello. Non gioco da secoli ormai…”. Il suo sguardo cambia. In un attimo mi ricordo di quando giocavamo in piazzetta. Quando lui metteva la maglia dell’Inter ed io quella del Napoli. Lui con la fascia nei capelli alla Ibra, mentre io li avevo lunghi (almeno per me, profondamente diversi rispetto a come li ho sempre portati), nel mio vano tentativo di emulare il “Pocho”; in realtà, di Lavezzi, avevo solo la maglia. I miei capelli non erano come i suoi; erano più corti e più mossi. Crescevano quasi più in largo, che in lungo. A differenza mia, Salvo ricordava un po’ il suo idolo, oltre alla capigliatura anche per la sua fisionomia massiccia. Sicuramente non per la tecnica, legnoso com’era. Si era fissato però di diventare come lui. Ricordo che un periodo passava ore ed ore a palleggiare, pur di emulare i trick di Ibra in un suo vecchio spot Nike. Che ricordi. Tornavo dalle ripetizioni di matematica e lo ritrovavo in piazzetta, vestito di nerazzurro a palleggiare da solo. “Che cazzo stai facendo?”. “Vatti a cambiare e vieni, muoviti!”. Quanti pomeriggi passati così, solo con un pallone, in un mare di sogni e promesse.
“Lo so che non lo faremo, ma te lo dico lo stesso. Abitiamo a duecento metri di distanza cazzo, almeno fino a maggio; cerchiamo di vederci…anche solo una volta al mese!”. Per una volta sono io che gli faccio un’arringa, degna di suo padre. “Sì, dai. Hai ragione. Dobbiamo organizzarci” mi risponde, sorridendo. Sappiamo entrambi che non accadrà, come tutte le volte che l’abbiamo ripetuto quando ci siamo incrociati negli ultimi sei anni. Eppure ce lo ripetiamo comunque, ma forse non siamo noi. Sono solo quei due sedicenni con i capelli lunghi (almeno i suoi) e la paura di parlare con le ragazze che si cercano ancora, senza trovarsi.
Dopo la falsa promessa, Toto mi saluta e va via. Solo adesso, mentre sta uscendo, faccio caso al suo taglio di capelli. Corti, a spazzola, profondamente diversi da come li portava. “Hai visto che taglio gli ho fatto?”, la domanda retorica di Pino, in cerca di consenso. “Belli, sì. Ma è strano non vederlo più con i capelli lunghi. Almeno lui ce li ha ancora…”. “Dai, non stai messo così male” mi risponde, ridendo. Anche questa è una falsa promessa. “Com’è cambiato Salvo, mammamia. Ti ricordi com’era ‘fisicato’? E poi con quei capelli…ricordi?”. “Sì, mi ricordo, mi ricordo…”.
E come potrei dimenticarlo. Di quando voleva imitare Ibra ma ci riusciva solo senza palla. Di quando non avevamo doveri e il nostro unico impegno era imitare i nostri idoli. Di quanto ci chiamavamo Toto e Dodo, e pensavamo di essere i gemelli Derrick. Di quando avevamo il tempo di vederci e non ci promettevamo solo di farlo: lo facevamo e basta.
Come cambiano le cose. Ed anche i capelli.