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Il giorno in cui mi sono rifiutato di salire sulla barca di “Magic” Johnson

Non so da dove cominciare. Anzi, sì, forse lo so. Forse devo cominciare dicendovi che ho giocato di più – in maniera ‘ufficiale’ se così si può dire, ‘da tesserato’ per intenderci – più a basket che a calcio. Il che, per chi mi conosce, è un incredibile paradosso. Come il fatto di aver scelto di studiare Ingegneria, per me che sogno di scrivere per vivere. Ma questa, è un’altra storia.

Sono nato e cresciuto con il calcio, però la pallacanestro mi è sempre piaciuta tantissimo. Quando ero bambino, vivevo di riflesso la adolescenza di mio fratello. Erano gli anni ’90. Si sognava l’America mediante l’NBA. Calzoni larghi, Hip-Hop nelle casse, il sogno di chiamarsi ‘Busta’ come Rhymes e la pallacanestro come attività sportiva: mio fratello, di sette anni più grande del sottoscritto, seguiva degnamente il copione dell’epoca. Ed io, illuminato dai raggi dello specchio della sua figura, apprezzavo. NBA Action alla Rai, le figurine, Willy il Principe di Bel-Air, Space Jam e il giocattolo di Michael Jordan che facevo giocare a basket sì, ma anche a pallone qualche volta (gli appassionati doc mi considereranno un eretico, perdonatemi se potete). Poi ci fu un giorno in particolare. Uno di quelli che non dimentichi. Per anni l’ho ricordato.

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Mezzogiorno, una domenica assolata, non ricordo con precisione la stagione, ma credo fosse inizio estate. Ci recammo all’Edenlandia, il parco giochi storico di Napoli, e trascorremmo una giornata fantastica. Io, mio padre, mio fratello, il mio vicino (migliore amico di papà dai tempi dell’Università, ambedue ingegneri chimici), e i suoi due figli (Mario, coetaneo e migliore amico di mio fratello, e Veronica, mia coetanea e mia migliore amica tutt’ora). Sì, sembra una storia inventata. E tra poco lo sembrerà ancora di più. Ma fidatevi, vi assicuro che non lo è. E ve lo dimostrerò.

Per anni come vi dicevo, mi sarei ricordato di quel pomeriggio. Negli anni a venire invece, mi sarei ricordato soprattutto di quella mattina. Sì, perché quella mattina, prima dell’Edenlandia, avevamo una missione da compiere. Rendere felice mio fratello. Scendemmo presto, tutti insieme nell’auto dei vicini. Destinazione, porto di Napoli. La barca di uno dei più grandi giocatori di pallacanestro della storia era attraccata al porto di Napoli. Ce l’aveva detto Maria, la madre di Mattia, il mio migliore amico (attualmente giocatore di basket di UISP e Prima Divisione). Lei gestiva le entrate e le uscite delle imbarcazioni. Loro non potevano esserci quella mattina perché avevano un impegno. Per noi, invece, la soffiata cadeva a pennello. Mio padre – benché non fosse appassionato di pallacanestro – non poté fare altro che esaudire il desiderio di mio fratello.

Arrivammo al porto in mattinata. Maria ci disse che sarebbe stato difficile beccarlo, ma noi ci provammo comunque. “Male che vada, ci siamo fatti una passeggiata” ripeteva mio padre in auto…motivazione, di fronte al pericolo di incorrere in una gita a vuoto. Non ricordo esattamente a che ora arrivammo né tantomeno dove parcheggiammo o come trovammo la barca. Sicuramente Maria ci diede qualche dritta. Ricordo che oltre a noi, c’era un padre con un bambino e forse un’altra famigliola; tutti nutrivano la speranza di guadagnare la tanto agognata firma, un autografo nella migliore delle ipotesi. Foto? Non so nemmeno se qualcuno aveva una macchina fotografica con sé, probabilmente sì, ma all’epoca il selfie era solo la macchinetta da cui prelevavi la benzina in assenza del benzinaio. Arrivammo lì e non vedemmo nessuno. Poi dal cabinato sbucò una bella ragazza – non ricordo i tratti precisi, ma nella mia mente è carina, magra e bionda: forse me la sono solo immaginata così in questi anni, magari era inguardabile – dell’equipaggio. Lo capimmo perché aveva degli asciugamani piegati sulle braccia. Qualcuno del nostro folto gruppo di persone che attendevano sulla banchina, manco fossimo alla fermata di un bus del centro nell’ora di punta, con timidezza si rivolse alla ragazza, chiedendole dove fosse la star. Lei rispose che era andato a fare jogging e non sapeva tra quanto sarebbe rientrato. Decidemmo di aspettare. Tanto, da Cavalleggeri, l’Edenlandia nessuno lo spostava. Dopo qualche minuto la famigliola desistette, arrendendosi con in sottofondo le lacrime del figlio maschio. Forse avevano da fare, chissà. Il gruppo si era assottigliato, ma il nostro team di sei persone ed il padre col bambino resistevamo strenuamente (mi sa che lì, la parte interessata, era quella adulta).

Passò circa una mezz’ora. Stavamo paventando l’idea di andare via, quando da lontano osservammo due sagome venire verso di noi. Un uomo e una donna. La donna, a differenza del caso precedente, non la ricordo proprio. La sagoma maschile sì. E come fare a dimenticarla? Vidi quest’omone grosso e nero arrivare verso di noi. Io non avrò avuto più di 6-7 anni e, ai miei occhi, era veramente immenso. I due salirono immediatamente sul piccolo supporto che collegava la barca alla banchina. Nessuno di noi otto osò tentare di bloccare la  sua corsa. La sua figura era davvero imponente. Incuteva rispetto e sicurezza anche con l’ombra. Poco dopo, il padre del bambino si fece coraggio e si rivolse alla ragazza dell’equipaggio che era più vicina a noi; la star – e credo la sua compagna – erano seduti su un divanetto mentre si asciugavano il sudore con gli asciugamani (ecco a cosa servivano) preparati poc’anzi. La ragazza fece al papà il segno dell’autografo; lui – ben preparato – sorrise, con un’espressione che esclamava “per chi diavolo mi hai preso?! Sono attrezzato!”, porgendogli un quaderno con una penna. La ragazza portò il quaderno alla star. Firma e via, restituzione dello stesso e tanti saluti. Era il massimo che si poteva avere. Almeno così doveva essere.

La ragazza dell’equipaggio, poco dopo, venne verso di noi. Ovviamente, mio fratello era dinanzi a tutti, dato che ai nostri amici non interessava una ceppa di tutto ciò, mentre io e mio padre rispettavamo la sua smania. La ragazza fece il segno della firma a mio fratello. Giacomo, sconvolto come un bambino a cui hanno rubato la merenda disse “cazzo, non ce l’ho, non ho né foglio né penna!”. Quasi con le lacrime agli occhi, si rese conto di aver fatto  – perdonate il francesismo – una grossa cagata. Il cestista sentì le urla e si girò verso di noi. Mio padre – anche se non ha mai preso un rimbalzo in vita sua – colse la palla al balzo e prese con la mano il pantalone della tuta Adidas a bottoni di mio fratello comprata due giorni prima indicandogli di firmarla lì. L’ex Lakers ci pensò un secondo e poi fece l’universale gesto con la mano del “vieni”.

Mio fratello era attonito. Gli tremavano le gambe mentre saliva sulla barca. Mio padre chiese se poteva salire anche lui. Richiesta accolta. Papà mi teneva per mano e, naturalmente, mi tirava. E lì, accadde una cosa che probabilmente mi porterò dentro per sempre. Oggi non so se ridere o piangere; probabilmente dovrei pendere per la seconda. Ebbene, all’epoca, mi rifiutai di salire. Mio padre mi tirava ed io gli dissi di no, rimasi inchiodato alla banchina. Come vi dicevo, avrò avuto 6-7 anni e l’idea di avvicinarmi a quella montagna mi spaventava. Che imbecille. Papà – giustamente – mi lasciò lì e salì sulla barca. Con grande nonchalance strinse la mano all’Hall of fame gialloviola e si mise a parlare come se lo conoscesse da una vita. Ero sbigottito. Non so cosa gli disse. Ricordo che era quasi due volte mio padre e che, mentre firmava la tuta di mio fratello, sorrise per qualcosa che aveva detto papà. Cosa darei oggi per sapere cosa si dissero. Purtroppo non posso più chiederglielo. Tempo di una firma, altra stretta di mano e saluto con grande educazione. Mio fratello era al settimo cielo, in estasi. E come non esserlo? Se avessi incontrato Maradona alla sua età come mi sarei sentito? Probabilmente così.

Ci sono giorni che non si dimenticano, anche se sono passati tanti anni. Giornate che sono, appunto, come posso dire…‘magiche’. Come il soprannome del proprietario della barca. Da bambini ci si mette spesso paura delle stronzate, ma quella che ho fatto quel giorno non me la dimenticherò mai. Il giorno in cui mio padre e mio fratello salirono sulla barca di Earvin ‘Magic’ Johnson, uno dei più grandi giocatori di pallacanestro della storia. Io invece no, sono rimasto sulla banchina del porto di Napoli, come un cretino.

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Tornammo a casa, mia madre si arrabbiò perché mio fratello decise di non mettere più quella tuta che avevano comprato solo due giorni prima. Nella foto potete ammirare il prezioso cimelio di quel giorno, custodito da mio fratello come una reliquia.

Se potessi tornare indietro salirei anche io sulla barca di Magic, gli stringerei la mano, mi farei autografare la tuta e magari gli direi “tra vent’anni potresti lasciare LeBron a Cleveland per piacere”?

E voi, se potete, perdonatemi. All’epoca non sapevo quel che facevo.

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