Come nel caso Lavezzi, Cavani, Higuain -e spero che sia l’ultima volta, ma ne dubito- anche ora ho atteso l’ufficialità prima di parlare.
La vita napoletana di Marek Hamsik è una serie storica, un insieme di dati nel tempo, come piacerebbe definirla al mio professore di IMCO (spero l’esempio sia pertinente, alla fine ho preso diciannove a quel dannato esame, quindi non vi assicuro niente). Potrei pescare a caso nel mazzo degli eventi, da qualsiasi punto della storia. Potrei partire dall’inizio od alla fine, dalla Sampdoria alla Sampdoria, dal primo goal azzurro -la spallata del Pocho e la zampata del Panterone come briciole da seguire per raggiungere la felicità- all’ultimo saluto silenzioso, in punta di piedi, lontano dai riflettori, quasi come se viversi l’addio con la consapevolezza della gente fosse troppo doloroso.
Potrei partire dal coast to coast che negò la Champions al Milan –mio zio milanista non lo dimenticherà mai-, oppure dal 2-2 che segnò nel finale alla Lazio pareggiando una partita che sembrava persa sotto ai miei occhi. Potrei parlarvi della volta che l’ho incontrato sul lungomare o a Piazza dei Martiri, oppure di quando prese il palo, sempre con la Samp, con un tiro che poteva farci sognare lo Scudetto anche con Mazzarri. Potrei parlarvi dell’articolo di giornale che ho scoperto qualche mese fa di possedere: un’intervista ad un ragazzino slovacco appena arrivato sotto al Vesuvio che raccontava alla rosea di voler fare la storia e diventare grande con questa maglia e delle lacrime che versai leggendolo. Potrei raccontarvi di quegli sciocchi che dicono che l’amore vero non esiste, solo perché non hanno mai visto come l’ha guardato mio fratello per anni, di come l’ha difeso di fronte alle critiche più becere: Marek dovrebbe sapere quante discussioni ha affrontato mio fratello solo per difenderlo.
Potrei parlarvi del mio screensaver del cellulare, di quando anche nelle giornate di merda guardavo lo schermo del mio smartphone che segnava le 17:17 con la sua foto; quante volte mi è capitato e allora pensavo “vabbè, è tutto a posto allora”. E potrei ancora continuare, con il suo goal al Villareal, con il giorno in cui ha superato il record di presenze di Bruscolotti o di quando ha migliorato il record di goal di Maradona, o meglio ancora della Coppa Italia e della Supercoppa alzate. Aspettate, potrei anche parlarvi di quel sabato pomeriggio, quell’halloween in cui Marekiaro segnò due volte alla Juve e la corsa che feci per recarmi a lavoro -dove avrei fatto il cameriere per otto ore, con appena trenta euro da riscuotere-ma tutta la serata non facevo altro che sorridere pensando a quel piattone all’incrocio.
E potrei andare avanti ancora, e ancora, ma è il momento di smetterla.
E allora vi dirò solo che dopo dodici anni, una marea di emozioni, di gioie, lacrime e sorrisi, come tutte le storie più belle, anche questa ha raggiunto la fine. E non poteva che farlo il 14 febbraio, il giorno degli innamorati. Perché se non si è trattato di amore, allora io davvero non so l’amore che cos’è.
Un solo rammarico mi porto dentro e qui mi rivolgo in prima persona, caro Capitano, quello di non aver avuto la possibilità di vederti alzare qualcosa di importante, qualcosa che potesse coronare la tua carriera. Non smetterò mai di pensare all’anno scorso, a quanto ci è capitato. Nessuno potrà mai capire cosa ci hanno tolto. Solo noi. E quella dannata promessa che ho fatto da ragazzino e che mi ero trascinato dietro anche da adulto, ovvero di tagliarmi i capelli come te e tingermeli d’azzurro se mai avessi visto l’alba di quel giorno tricolore. Invece niente, tricolore e tricologico rimandati definitivamente, per sempre. Quell’immagine stampata nella testa rimarrà solo un sogno. Dio solo sa cosa darei per vederla materializzarsi.
Speravo almeno che potessi farcela con l’Europa League per scrivere i degni titoli di coda del tuo meraviglioso colossal. Ma non tutto finisce come dovrebbe finire, la vita me l’ha insegnato ormai da tempo. E allora ci salutiamo così, con quel lancio di cinquanta metri a tagliare il campo, l’ultima opera d’arte dipinta nella tua galleria.
Oggi non finisce ufficialmente solo la storia d’amore tra te e il Napoli. Oggi si chiude un’epoca. Perché oggi finisce il Napoli dei tre Tenori, il Napoli della Rinascita. Oggi si conclude una parte importante della mia vita. Perché da dodici anni a questa parte, dal quinto anno di liceo fino alla laurea tu c’eri sempre, Capitano.
E allora posso dirti solo GRAZIE Marek. Grazie per ogni giocata, per ogni apertura, per ogni rete, per ogni magia. Grazie per il tuo comportamento, per non aver mai detto una parola fuori posto, nonostante le sostituzioni e le critiche ripetute di chi doveva solo farti una statua. Grazie mille Capitano, per ogni emozioni vissuta insieme, domenica dopo domenica.
Sarà difficile non veder più la tua cresta dagli spalti, sempre la prima ad entrare dopo i portieri con il mio urlo “Dai Mareeek” rito scaramantico personale a cui dovrò fare a meno.
In bocca al lupo Capitano. Torna quanto prima a casa che ci devi un saluto come si deve.
“Il diciassette a Napoli, ormai, non porta più sfortuna”